… pour assassiner la magie

Con questo secondo post continua l’inserimento su Arpa eolica del saggio su Antonin Artaud di Federico Zaffuto – tutto il piano dell’opera su

(da 50 dessins pour assassiner la magie - A. Artaud - edizioni Gallimard Parigi)


IL PROBLEMA DELLA RAPPRESENTAZIONE NEI DISEGNI DI ARTAUD

Il 4 marzo 1948 Antonin Artaud veniva trovato morto ai piedi del suo letto, moriva
lasciando così incompiuta una delle sue più enigmatiche opere a cui aveva iniziato a
lavorare il 30 gennaio dello stesso anno, ovvero i 50 dessins pour assassiner la
magie. Opera questa suggerita da Pierre Loeb il quale l’anno precedente aveva fatto
esporre presso la propria galleria parigina alcuni ritratti e disegni dell’autore. «Poco
prima della sua morte » scrive Loeb «gli avevo suggerito un’opera sui curiosi disegni
che si vedono spesso in margine o negli stessi testi dei suoi ultimi quaderni. Noi li
abbiamo scelti insiemi per accompagnare il suo testo: 50 dessins pour assassiner la
magie. La sua improvvisa morte interruppe questo progetto e non dipese da me che la
sua volontà non fosse “fatta”...» (1)  (note in fondo al post). Di quest’opera incompiuta ci rimangono solamente la parte grafica, che consta di cinquanta disegni scelti da una serie di dodici quaderni di Artaud, e una breve introduzione dell’autore che ha lo scopo di illustrare il
progetto. Non ci fu dunque tempo per potere comporre i testi che dovevano
accompagnare le immagini, ma, per capire il tipo di lavoro che Artaud aveva in
mente, è sufficiente l’introduzione e le immagini che possediamo. Egli non pensava
di scrivere dei testi che avrebbero avuto lo scopo di spiegare o illustrare meglio i suoi
disegni ma, al contrario, sarebbero dovute essere le immagini ad assolvere questa
funzione e non i testi scritti, come egli stesso ci dice: «...gettati su delle pagine/ dove
la scrittura/ occupa il primo piano/ della visione,/ la scrittura,/ il punto febbrile,/
effervescente,/ ardente/ il blasfemo/ l’imprecazione./ Di imprecazione in/
imprecazione/ queste pagine/ vengono avanti/ e come dei corpi dalla/ sensibilità/
nuova/ questi disegni/ sono là/ che li commentano,/li amplificano/ e li chiarificano»(2).
Disegni da considerarsi come commenti ai testi quindi, ma per modo di dire, visto
che poco dopo ci dice espressamente: «...questi disegni/ che non vogliono dire
niente/ e non rappresentano/ assolutamente niente»(3).
Come dobbiamo intendere queste indicazioni? Come potrebbero dei disegni che non vogliono dire niente e che non rappresentano nulla fungere da commento a qualcosa?

(da 50 dessins pour assassiner la magie - A. Artaud - edizioni Gallimard Parigi)

Innanzitutto il non volere dire nulla è da intendere in senso letterale: essendo infatti
disegni, il loro messaggio non si organizza in un alfabeto che segue un ordine
sintattico o grammaticale secondo la logica linguistico-verbale e di per sé quindi
sono fuori dalla costruzione di senso della logica linguistica. Tuttavia, si potrebbe
obiettare, che l’uscita dalla logica linguistica può non voler dire necessariamente
assenza di significato: un disegno può avere comunque un significato, anche più di
tante parole, basta che mostri in modo simbolico con le immagini ciò che vuole
rappresentare; e in effetti Artaud voleva che fosse l’immagine a fornire il commento
all’espressione verbale e non il contrario. Ma egli è abbastanza chiaro anche su
questo punto, i disegni infatti non solo non voglio dire niente, essi non rappresentano
nulla. Del resto non ci sarebbe nemmeno bisogno di questa delucidazione dell’autore,
guardando le pagine di quaderno da lui scelte, la considerazione «non rappresentano
niente» sembra addirittura poco: si dovrebbe dire che questi non sono per niente dei
disegni. In realtà ad Artaud non interessa in questo momento l’arte del disegno e ce
lo dice espressamente nell’introduzione di questo lavoro: «Non si tratta qui di disegni
nel senso proprio del termine, di una incorporazione qualunque della realtà attraverso
il disegno. Non sono un tentativo per rinnovare l’arte del disegno al quale non ho mai
creduto»(4). Non si può nemmeno del resto credere che sia un limite tecnico a portare
l’autore ad esprimersi in questo modo, è nota infatti la sua particolare abilità in
questo campo (5). Non siamo dunque in presenza di veri e propri disegni, in quanto
queste opere non hanno di mira la rappresentazione o la raffigurazione di un oggetto,
e nemmeno di un pensiero o di uno stato d’animo: non si è più nella dimensione dello specifico artistico che concerne l’arte figurativa.

(da 50 dessins pour assassiner la magie - A. Artaud - edizioni Gallimard Parigi)

L’obiettivo di Artaud in queste composizioni grafiche non è quello di rappresentare,
quanto invece quello di denunciare qualcosa. Egli infatti, con queste figure gettate
sul foglio, ci vuole rendere testimoni di una difficoltà incontrata, un intoppo; è come
se disegnando, trovasse una resistenza derivante dal rapporto che il gesto grafico
instaura, o meglio subisce, con la superficie sulla quale opera. Artaud vuole superare
un tipo di produzione grafica legata agli stilemi classici (che riguarda la sua
produzione che va dal 1919 al 1935) per approdare, nell’ultimo periodo, ad un tipo di
composizione che vada oltre le regole accademiche e tradizionali (6): disimparando la
tecnica del disegno vuole giungere ad esprimere una goffaggine che definisce «buona» e che metta in mostra, ricercandola, una certa incapacità.

(da 50 dessins pour assassiner la magie - A. Artaud - edizioni Gallimard Parigi)

 Si tratta di disfarsi di un assoggettamento alle forme e alle norme dell’arte. 
Ma la critica non riguarda la tecnica pittorica da far evolvere verso una sperimentazione particolare, quanto piuttosto la possibilità stessa della rappresentazione artistica che trova un limite nel momento in cui prova ad esprimersi sul supporto sul quale deve operare. Ecco perché il gesto grafico di Artaud si fa violento, e il foglio viene letteralmente martirizzato in tutti i modi: «Le figure sulla pagine inerte non dicevano nulla sotto la mia mano. Mi si offrivano come dei cumoli che ispiravano il disegno, e che potevo sondare,tagliare, raschiare, limare, cucire, scucire, mutilare, lacerare e sfregiare»(7). 
Artaud opera sul foglio, un’operazione, di fatto chirurgica, che si attua attraverso il gesto del lavoro della mano dell’uomo che la produce: questa operazione lascia la sua traccia
sul foglio e ci consegna, non un’opera d’arte, ma la testimonianza di un gesto. Tutto ciò non ha niente a che fare con la tecnica del disegno, che egli stesso ci ha detto volere superare dopo averne «disperato». Per questo dicevamo che Artaud non si sta più muovendo nell’ambito dello specifico artistico delle arti figurative, questi disegni si sono trasformati da immagini o rappresentazioni a vere e proprie scene di un dramma: vogliono restituire il senso del gesto stesso che le ha create, denunciando l’impossibilità che il gesto artistico sul foglio non venga fagocitato dal supporto, pur essendo questo a renderlo possibile. Questi disegni, ci dice l’autore, diventano quindi comprensibili se si supera la dimensione del reale per entrare in quella del surreale, del soprannaturale dal quale essi derivano; essi sono testimonianza di un’azione che ha avuto realmente luogo e sono «la riproduzione sulla carta di un gesto magico» che è stato realmente esercitato nello spazio «attraverso il soffio dei polmoni, con le mani, con i propri piedi, il tronco, le arterie, etc». 

Sortilegio - disegni su una lettera inviata da Artaud a Sonia Mossé - 14 maggio 1939 -  da appendice iconografica dal saggio di Derrida - Forsennare il Soggettile

Ci sembra di vederlo agire, col fiammifero sulla carta: la brucia, la buca e queste tracce di fuoco che perforano il foglio fanno sì che ci si trovi davanti ad un’opera dove non è più possibile distinguere tra il soggetto della rappresentazione e il supporto di questo soggetto, dunque tra il soggetto e il suo al di fuori. Siamo di fronte ad una vera e propria
distruzione: questi gesti mirano a distruggere tutti i limiti che sottendono la
rappresentazione. Non è più solo un’opera grafica, dicevamo, ma qualcosa che si
avvicina maggiormente alla messa in scena di un dramma, un dramma che si svolge
su una scena che potremmo definire con Derrida la scena del soggettile. 
Soggettile è un termine utilizzato da Artaud in tre occasioni, con una connotazione
volutamente ambigua; esso sta ad indicare un qualcosa che non è né oggetto né
soggetto, un qualcosa di cui è difficile parlare. È utile introdurre questo termine nella
nostra trattazione perché ci permetterà di capire che l’operazione che egli compie sul
foglio, che non è più un disegnare ma una sorta di lotta, di corpo a corpo col
supporto, non ha di mira l’oggetto sul quale si disegna, ma il soggettile in quanto
supporto, presente in ogni tipo di rappresentazione. Questo soggettile è sia
l’elemento che giace sotto questi gesti violenti (divenuto giacente è inerte, neutro), e
quindi che permette che abbia luogo l’opera, ma anche qualcosa che si confonde col
gesto stesso dell’artefice. Esso quindi non è né oggetto né soggetto, né supporto né
gesto, è qualcosa che può muoversi all’interno di queste opposizioni e, occultandosi,
sempre mantenersi presente. Questo supporto, su cui ci sembrava si potesse operare,
è diventato ora, in quanto soggettile, una membrana da forare, da oltrepassare, per
farla finita con lo schermo, ovvero con ogni supporto inerte della rappresentazione.
Scrive Artaud in una lettera del 1932 indirizzata a André Rolland de Renéville: «qui
accluso un brutto disegno dove ciò che viene chiamato soggettile mi ha tradito»(8).
Il soggettile può dunque tradire: quella goffaggine che Artaud ricercava nel proprio
disegno sta a rivelare non un’incapacità tecnica, quanto questo tradimento. Il limite
non è tecnico, è strutturale, anzi la tecnica stessa della bella arte ricade dentro il
piano del soggettile e non lo supera. Si può dipingere o disegnare in modo goffo
proprio perché non si tratta di forare e oltrepassare la tela o il foglio per meglio
rappresentare  un ipotetico mondo perduto o oltre-mondo, il disegno non ci
restituisce un immagine di qualcosa ma solo, per citare Derrida, «l’avere-avuto-luogo
di una foratura». Attraverso queste forature, questi squarci, si vuole tentare di far
vivere ciò che non è mai nato, e che Artaud definisce innato. Derrida su questo punto
è estremamente chiaro: «Il soggettile, luogo del tradimento, somiglia sempre ad un
dispositivo di aborto, dà luogo a uno sviamento […] lapsus, prolasso, espressione,
escremento, neonato sgambettato, deformato e sviato, pertanto folle dalla nascita, folle di desiderio di rinascere»(9). C’è un tentativo di far venire avanti il soggettile che
sempre si nasconde dietro la condizione di supporto. Esso finge di essere neutro, e
proprio dietro questa apparente neutralità permane nascosto dentro ogni tipo di
creazione, e tortura e perseguita; bisogna dunque farlo in qualche modo venire
avanti, farlo apparire, attraverso queste azioni violente sul foglio. Grazie a ciò esso
può essere incorporato nell’opera, ne farà parte: sarà messo in opera. Ecco cosa
scrive Artaud nel 1946 in un passaggio citato nell’opera di Derrida dove ritorna
l’espressione soggettile: «Questo disegno è un grave tentativo per dare la vita e la
esistenza a ciò che finora non è mai stato ammesso nell’arte, l’imbrattamento del
soggettile […] La pagina è lordata […] la carta spiegazzata, i personaggi disegnati dalla coscienza di un bambino»(10). Il problema è che il soggettile in quanto supporto,
sopporta tutto quello che gli si fa e lo fa senza soffrire come dice espressamente
Artaud nell’ultimo dei testi in cui nomina questo termine: «Potevo sondare, tagliare,
raschiare […] senza che mai il soggettile per parte di padre o per parte di madre si lamentasse»(11). Il soggettile dunque di per sé resta estraneo allo spazio della
rappresentazione, ma tuttavia è ciò che la istituisce, qui Artaud ci sta dicendo che
esso non si lascerebbe rappresentare né come padre né come madre, quindi né come
gesto creatore né come luogo che accoglie tale gesto, ma nemmeno come prodotto
finale, come figlio (ovvero opera d’arte): e tutto ciò gli è indifferente («senza che mai
[…] si lamentasse»). Tuttavia queste figure si stagliano tutte direttamente su di esso
ma non vi si confondo, esistono grazie ad esso. Il soggettile è una sorta di fondo
senza fondo che si nasconde dietro le figure, queste sono sue ma non gli
appartengono e il gesto dell’artista-chirurgo si fa drammatico, violento senza
speranza di potere accedere davvero a questo fondo indeterminato che sta dietro le
figure.  
(da 50 dessins pour assassiner la magie - A. Artaud - edizioni Gallimard Parigi)

Alla fine del suo saggio Derrida ci dice che il soggettile è simile alla chṓra del
Timeo, questi non è niente di determinato ma in un certo senso è tutto; è amorfo,
indifferente, onnipotente proprio perché non consiste, è un nulla-di-essere che sta
dietro a tutto ciò che esiste, non si lascia né prendere, né raffigurare, né determinare.
In questo senso il dramma del soggettile diventa qualcosa di più, è il dramma
dell’essere e dell’esistenza, è quell’infinito negativo che nella «teologia negativa»
viene concepito come ciò che sta dietro i fenomeni, come cosa in sé, che Derrida
chiama «l’oggetto trascendentale = x». Bisognerebbe quindi riuscire a farlo apparire
tentando di determinarlo, di finirlo, per farla finita col soggettile, facendolo uscire
fuori di sé, facendogli perdere questa indeterminatezza. «Che divenga infine
qualcosa o qualcuno! Che porti il suo nome, il suo nome proprio! Bisogna finirla con
il giudizio di dio di tutte le teologie negative, e mettervi fine con le proprie mani.
Chirurgicamente, pittograficamente» (12). Perché il dramma che porta all’esasperazione
è proprio questo: avere a che fare con qualcosa che porta su di sé tutte le forme senza
assumerle, che è sempre presente ma continuamente si sottrae. Ma riuscire a dare una
forma a ciò che di per sé è la condizione/non condizione del darsi di ogni forma,
significa fargli perdere il suo senso originale, ovvero il suo non senso, dandogli un
senso. Forsennarlo (come dice Derrida nel titolo della sua opera (13) riprendendo un
termine spesso ricorrente nel testo di Artaud intitolato Van Gogh il suicidato della
società), farlo soffrire, tormentarlo, renderlo folle, significa allora farlo uscire di
senno per dargli un senso. Questa operazione è destinata a non arrivare a
compimento, il soggettile ha la formidabile capacità di prenderci alle spalle e di
riapparire raggirando ogni tentativo. Per questo questi tentativi non possono che
essere goffi e infantili. Alla fine di tutta questa operazione rimane dunque una pittura
che deve per forza assumere su di sé la rappresentazione di qualche soggetto, di
qualche figura, ma che assumendo su di sé anche quei gesti violenti e drammatici
operati sul foglio, ci rende testimonianza di quel soggettile che non è rappresentato
ma che si nasconde dietro queste figure. RITORNA A L’INDICE DEI CAPITOLI
note
1 «Peu de temps avant sa mort je lui avais suggéré un ouvrage sur le curieux dessins que l’on voit
souvent en marge ou dans le texte même de ses derniers chaiers. Nous les avions choisis ensemble
pour accompagner son texte: 50 dessins pour assassiner la magie. Sa brusque fin interrompit ce
projet et il n’a pas dependu de moi que sa volonté n’ait été “faite”…» mia traduzione. P. Loeb,
Dessinateur et critique Cahiers Renaud-Barrault, (prima edizione maggio 1957) numero «Antonin
Artaud», primo trimestre 1969, pp. 63-64.
2 «…couchés sur des pages/ où l’écriture/ tient le 1ͤ ͬ plan de/ la vision,/ l’écriture,/ la note fiévreuse,/
effervescente,/ ardente/ le blasphème/ l’imprécation./ D’imprecation en/ imprecation/ ces pages/
avancet/ et comme des corps de/ sensibilité/ nouveaux/ ces dessins/ sont là/ qui les commentent,
/les aèrent/ et les éclairent[.]» mia traduzione. A. Artaud 50 dessins pour assassiner la magie
Gallimard, Paris, 2004, qui p.19.
3 «…ces dessins/ qui ne veulent rien dire/ et ne représentent/ absolument rien» mia traduzione. Ivi,
pp. 23-24.
4 «Il ne s’agit pas ici de dessins au propre sense du terme, d’une incorporation quelconque de la
réalité par le dessin. Il ne sont pas une tentative pour renouveler l’art auquel je n’ai jamais cru du
dessin» mia traduzione. Ivi, p. 16.
5 Derrida, che ha curato assieme a Thévenin l’edizione dei ritratti e dei disegni, propone di
distinguere due periodi nella produzione grafica di Artaud: il primo che va dal 1919 al 1935 (dove
dimostrerebbe una buona padronanza tecnica, ma poca creatività), il secondo dal 1939 al 1948 (che
definisce essere «il momento più potente e geniale»), cfr. J. Derrida, Artaud le Moma. Interiezioni
(1996), trad. it. di G. Motta, in «Rivista di estetica», XXXVI, n. 3.
6 Vedi nota precedente.
7 A. Artaud, testo citato in J. Derrida, “Forsennare il soggettile”, in Antonin Artaud Dessins et
portraits, Gallimard, Paris 1978, tr. it. di A. Cariolato, Abscondita, 2005 Milano, qui p. 91.
8 Ivi, p. 9.
9 Ivi, p. 60.
10 Ivi, pp. 75-76.
11 Ivi, p. 90.
12 Ivi, p.99.
13 J. Derrida, “Forsennare il soggettile”, in Antonin Artaud Dessins et portraits, Gallimard, Paris 1978,
tr. it. di A. Cariolato, Abscondita, 2005 Milano.

1 commento:

  1. Un auutore complesso, enigmatico, dal tratto delirante e per questo così affascinante.

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